Questo libro nacque nel 1957, ma in copia unica. È una storia singolare ma rivelatrice. In quel tempo disponevo – da due anni ero alla direzione del Resto del Carlino – di una specie di legatore personale, un vecchio artigiano del mercato centrale che ogni martedì batteva alla mia porta di via Cavour, qualche minuto prima della mia lezione universitaria che era sempre alla quindici, e prendeva con sé un nucleo consistente di volumi da rilegare secondo modelli che copiava da esemplari tedeschi o inglesi che il gli davo sistematicamente (e che imitava con somma, esemplare diligenza). Fu in quegli anni lontani che nacque la maggior parte delle legature della mia biblioteca (ricordo una splendida legatura dei Mémoires di Metternich, nella stessa edizione che trovai poi nella casa di Kissinger a New York, realizzata secondo un archetipo che avevo tratto da una casa patrizia fiorentina.

Un certo giorno detti a quel legatore un fascio di fogli dattiloscritti. Erano i capitoli della storia dei radicali e della storia dei repubblicani usciti sei anni prima sul Mondo e che avevo annotato. Gli dissi: «È un’opera sperimentale. Vorrei fare una copia unica» e il libro tornò la settimana successiva insieme con gli altri con quella testata impressa nella costola, L’opposizione laica. Con un gesto fra l’ingenuo e il malizioso collocai quel singolare pezzo unico fra i libri da me pubblicati affiancandolo all’Opposizione cattolica che in quegli anni registrava il massimo dei successi (era uscita nel giugno del ’54 ed era arrivata alla terza edizione entro un anno e si era fra la prima e la terza arricchita di oltre cento pagine).

Lo riconosco a distanza di tanti anni: fu un atto quasi infantile. Apparteneva a quella mia tendenza istintiva ed innata di pubblicare i libri in qualunque forma, e di manifestare il mio pensiero in un colloquio anche immaginario con gli altri (che spiegherà i tanti dattiloscritti in copia unica e i tanti manoscritti degli anni fra il ’35 e il ’40, degli anni cioè della mia infanzia ed adolescenza). Ed insieme fu un incitamento a proseguire in quell’indagine che per primo avevo affrontato fra gli storici italiani della nuova generazione: il che aveva procurato fra gli altri gli elogi e gli incitamenti di Federico Chabod.

Avevo concepito le due storie, la storia dell’opposizione cattolica e la storia dell’opposizione laica quasi negli stessi mesi, sotto lo stimolo e la guida di Mario Pannunzio, il grande direttore del Mondo che voleva esplorare – nelle colonne del suo settimanale rabdomantico e problematico – tutta quell’Italia sommersa che non si poteva riassumere negli schemi dell’Italia ufficiale e liberale, che andava oltre la stesse catalogazioni crociane pur complessivamente sacre alla generazione del Mondo.

L’Italia cattolica del non expedit, del voto di castità politico, del non possumus verso lo Stato risorgimentale e scomunicato di Porta Pia: di lì la mia storia delle origini dell’azione cattolica e tutte le storie, con la mia intrecciate, di Vittorio Gorresio.

Dall’altro tutto il filone dei partiti dell’opposizione democratica protestataria, quelle forze attestate sulle posizioni dell’altro voto di castità politica, quello repubblicano, quello mazziniano, quello del non possumus laico, quello di coloro che per vent’anni, esattamente come i cattolici sull’altra sponda, non avevano riconosciuto la legittimità dello Stato unitario nella forma monarchico-moderata e avevano attivato movimenti di iniziativa politica ai limiti dell’eversione o della sovversione (si ricordi il caporale Barsanti e l’Alleanza repubblicana universale). Momenti o movimenti trascurati o negletti, da parte della storiografia liberale che tendeva a ridurli a qualcosa di rapsodico e secondario: così come aveva ridotto la vera insurrezione di massa, cioè la guerra del brigantaggio, a niente altro che ad un capitolo attinente alla sfera un po’ delle forze armate e un po’ della magistratura.

La riscoperta di questa Italia illegale, accanto ad un’Italia legale simboleggiata nello Stato censitario e oligarchico del Risorgimento, fu una delle caratteristiche fondamentali di quella generazione e uno degli apporti più cospicui che il gruppo del Mondo – sospeso fra Croce e Salvemini – dette all’avanzamento degli studi storici in Italia.

Allora scrivere sul Mondo non era scrivere su un rotocalco; era scrivere su una rivista che esercitava un peso indubbio negli studi anche se non disponeva di apparati documentari e di possibilità di note a piè di pagina. Ricordo che Federico Chabod comprese i miei saggi, per esempio, sui radicali e sui repubblicani fra le fonti cui si richiamò esplicitamente per quel periodo e per quei movimenti nella sua monumentale e fondamentale opera sulla vita politica estera italiana.

Non c’è dubbio che avevo dedicato all’opposizione cattolica un rilievo e uno spazio maggiori che all’opposizione laica (pur giunta prima quasi a spia di una preferenza, di una scelta ideale). L’opposizione cattolica si era dilatata ben oltre le puntate concordate con Pannunzio, era arrivata a lambire il Novecento, ad anticipare i fremiti della revisione modernistica e della correzione ereticale del laicato alle posizioni intransigenti del magistero. Di qui il desiderio di adeguare quasi come formato le due «opposizioni», di completare la prima, approfondendo e scavando ulteriormente in quegli spazi storici che avevo percorso nelle misure obbligate del Mondo fra il ’50 e il ’51; e insieme il desiderio di dare corpo – come feci in quegli anni nelle aule del «Cesare Alfieri» - ad una serie di studi monografici che approfondissero aspetti e momenti della storia del repubblicanesimo e del radicalismo. Ma soprattutto del repubblicanesimo: a partire da Luigi Lotti e da Domenico Berardi.

Si scioglie oggi un voto che è durato quasi quarant’anni. In questa generale ristrutturazione della mia opera storica che coincide con le «Opere illustrate» - dove sono destinati a tornare tutti i libri di storia che hanno segnato la mia vita universitaria e poi gli anni successivi al ’72 – è giusto che i due diversi volumi sui radicali e sui repubblicani trovino una configurazione unitaria con gli aggiornamenti e gli arricchimenti bibliografici necessari e la trovino su uno sfondo che comprenda anche altre essenziali pagine via via maturate su quei temi e su quegli uomini. A cominciare dalla «Storia del trasformismo» che comparve sul Mondo nel settembre-ottobre 1950, quasi a delineare l’itinerario della sinistra storica nella sua fase di dissoluzione e scomposizione, l’avventura dei «notabili progressisti».

Opera analoga ho compiuto in questa collana quando ho raggruppato intorno al nucleo fondamentale di Firenze capitale (che fu il mio primo libro storico fortunato dopo L’Opposizione cattolica a distanza di dodici anni da quella) gli scritti vari su Ricasoli in Firenze capitale – Gli anni di Ricasoli.

Analoga opera di raggruppamento ho compiuto quando ho fuso la mia storia del «Cesare Alfieri» - cui sono molto affezionato per i tanti ricordi che evoca nell’animo mio – nel quadro della Firenze fra Ottocento e Novecento o quando ho raggruppato, aggiornato e ritoccato, il profilo di Giuseppe Montanelli – Un dissidente del Risorgimento, cioè l’antico ritratto che avevo dedicato al nipote Indro fin dal 1962 e che era uscito come primo volume della collana «Quaderni di storia», nell’opera Fra Vieusseux e Ricasoli.

In attesa di raggruppare in questa stessa collezione tutte le pagine sul cattolicesimo politico dall’opposizione a Giolitti (Coscienza laica e coscienza cattolica riunisce solo le pagine sparse successive a quei due volumi fondamentali del mio itinerario storiografico) ecco che oggi consegno ai miei lettori questo volume sulla storia della democrazia laica, mazziniana, garibaldina e risorgimentale, quella democrazia che si divide fin dall’indomani dell’unità in due grandi filoni: il filone radicale, possibilista e gradualista e il filone repubblicano intransigente e di principio.

Si noti bene che nei primi vent’anni fra 1870 e 1880 le due storie si intrecciano. C’è l’urto sempre più spietato fra Garibaldi e Mazzini. C’è la divaricazione, decisiva, dalla Comune di Parigi che vede Mazzini schierato contro ogni forma di comunismo e collettivismo e Garibaldi inneggiare al «sol dell’avvenire» (e portare la sua spada in difesa della Repubblica francese che per la verità non avrà poi tanti riguardi verso la Comune). C’è la svolta non meno decisiva dei patti di fratellanza mazziniani che nel 1871, all’indomani di Porta Pia e alla vigilia della morte del profeta, segnano la nascita di quella specie di sindacalismo nazionale o di socialismo nazionale, che avrebbe potuto essere il mazzinianesimo, se gran parte del suo stato maggiore non avesse ceduto alle seduzioni o alle tentazioni dell’internazionalismo proletario.

C’è il corso sinuoso, tormentato, contraddittorio dei rapporti fra repubblicani e socialisti, cioè fra mazziniani e anarco-marxisti del ventennio che va dal 1871 al 1892, data di nascita del partito socialista italiano alla Sala Sivori di Genova. Di quel corso fu studioso incomparabile e anticipatore Nello Rosselli allorché avviò la sua lotta ideale contro il fascismo e, mentre il fratello elaborava le basi del socialismo liberale, pubblicò, presso le vecchie edizioni Bocca, quel libro che tanto ha pesato nella storia e nella formazione della nostra generazione, Mazzini e Bakounine.

Due filoni che dominano le due prime parti dell’opera oggi raccolta, riordinata e rigorosamente aggiornata anche in tutti gli apparati bibliografici. Da un lato Garibaldi, dall’altro Mazzini la cui eredità si fonde e si intreccia sempre più intimamente, per la generazione che avanza alla fine del secolo, con quella di Cattaneo.

Il Garibaldi sentito come simbolo di universalismo e di democrazia avanzata da tutte quella falangi protosocialiste che poi confluiranno nel vero e proprio movimento operaio organizzato (è il filone che spiega la tenace fedeltà di uomini come Nenni e come Craxi all’eroe dei due mondi).

Sull’altro fronte Mazzini col suo depositum fidei austero, esigente, rigoroso, con quella vena di pessimismo che si era pronunciata ancora più nella sua azione dopo la presa di Roma (quella Porta Pia che aveva obbligato l’eroe a «mettere l’anima a bruno», cioè a vestire a lutto contro la profanazione monarchica della conquista della capitale).

Due visioni della vita, quella radicale e quella repubblicana, che avevano radici comuni ma che poi seguiranno una strada alla fine incompatibile ed in ogni caso incomparabile. Il partito radicale, quello che aveva raccolto tutto l’impeto e lo sdegno di Cavallotti, destinato a diventare partito di governo neanche con Giolitti – demiurgo dell’apertura a sinistra – ma con Sonnino, l’avversario scontroso e accigliato da destra dello statista piemontese. E poi verrà il radicalismo che si consumerà nelle collaborazioni ministeriali e che finirà per favorire il passaggio da Giolitti a Salandra e cioè dalla sinistra alla destra liberale, con tutte le conseguenze, quelle sì «di regime», che ne scaturiranno in coincidenza con l’intervento nella prima guerra mondiale.

Dall’altro lato il partito repubblicano che pur inferiore ai socialisti come forze parlamentari e come forze di popolo, contenderà palmo a palmo il terreno ai socialisti, a cominciare dalla Romagna. Nulla cederà all’antico competitore. In nulla si adatterà alla mistica del fronte unico di sinistra, una volta usciti dai pericoli reazionari che avevano caratterizzato la fine del secolo col decretone Pelloux e con l’aria di svolta liberticida chiusa dal revolver di Monza.

Un partito che si consolida sia pure nelle sue limitate proporzioni come partito di opposizione istituzionale, di alternativa radicale ed intransigente, diffidente e sospettosa di ogni crescente ammiccamento istituzionale di quella che Missiroli chiamerà la «monarchia socialista»: cioè l’indifferenza dei socialisti alla questione istituzionale, e il loro adeguarsi alla monarchia in Italia come nel mondo scandinavo o nel mondo britannico. E semmai i repubblicani portati a sentire piuttosto la vicinanza con le correnti protestatarie della sinistra del radicalismo e fuori dal quadro del socialismo, come i sindacalisti rivoluzionari, per esempio, o come gli anarchici o come quelle frazioni libertarie sopravvissute all’esperienza marxista in Italia.

Ho aggiornato quelle storie, che sul Mondo condussi fino alla fine del secolo, almeno nei dati fondamentali fino ad oggi. Ma in questo momento voglio tornare – quasi a chiudere questa prefazione che è anche una testimonianza autobiografica – su quella che fu la fortuna dei due volumi I radicali e I repubblicani (e già comprensivo del saggio sul trasformismo), fusi in questo volume che si arricchisce dei miei studi sull’irredentismo molto più recenti (il saggio su Oberdan è del 1982) e che comprende talune delle pagine di ispirazione metodologica che ho dedicato in questi anni, anche su stimolo dei miei allievi, alla storia del movimento repubblicano tanto dilatata e tanto ingrandita dal 1970 in avanti.

Il sogno di quel libro a copia unica mi aveva indotto a tenere di riserva quegli originali del Mondo per una destinazione che fosse in qualche modo unitaria. Senonché nel ’59 le esigenze del concorso universitario, il primo in storia contemporanea che si celebrasse nell’università italiana per essenziale volontà di Federico Chabod e con tutte le resistenze del fronte compatto e variegato dei risorgimentisti, fece sì che dovetti decidermi a pubblicare come contributi specifici anche I radicali e I repubblicani.

Ricordo che avevo talune incertezze e che le comunicai a Vieri Paoletti, l’editore che aveva strappato una specie di esclusiva per i miei studi storici a cominciare dal volume su Giolitti e i cattolici (dopo tutte le disavventure occorse alla Vallecchi che era stata la casa editrice della fortunata Opposizione cattolica). Vieri Paoletti era uno di quegli editori che avevano la capacità di collocare l’azione giusta al momento giusto per gli uomini di formazione universitaria. Egli mi offrì di stampare senza spese qualche centinaio di volumetti: semplicemente come suo apporto e suo contributo disinteressato e generoso al mio concorso universitario.

Il libro doveva essere – dico doveva essere – fuori commercio. In realtà Vieri Paoletti congiungeva il sentimento dell’amicizia con una capacità straordinaria ed inarrivabile di curare i propri affari. Una volta vinto il concorso, primo in quella terna che comprendeva Gabriele De Rosa e Aldo Garosci (uno spaccato della società italiana), mi accorsi che i volumetti stampati non erano trecento ma novecento e li vidi inseriti nel catalogo dell’editore come quelle due pubblicazioni che poi in qualche modo anticiparono e prefigurarono la collana «Quaderni di storia», destinata a nascere nel ’62 (e che si muove verso il traguardo degli ottanta volumi).

Ecco il mistero: essi non sono il numero uno e il numero due dei «Quaderni di storia», sono il numero due e il numero tre perché nel frattempo la collana si definiva col mio saggio su Giuseppe Montanelli – Un dissidente del Risorgimento, che è il primo ma già successivo di due anni alla vittoria nel concorso universitario.

Altri tempi! Altri uomini! L’industria culturale oggi dominante col suo cattivo gusto e con la sua aggressività riduce queste vicende a dimensioni quasi deamicisiane.

Sul tronco di quelle due pubblicazioni affrontate da un editore in ogni caso coraggioso e fiducioso, si svilupparono due libri che ebbero l’uno cinque edizioni e l’altro quattro. Che furono costantemente aggiornati con tutti i contributi bibliografici, che servirono in qualche modo ad alimentare nell’università una scuola e occuparono un posto che fino a qualche tempo fa si può giudicare fosse insostituibile.

Senonché il succedersi delle edizioni non mi consentì mai, fra il 1963 e il 1987, di arricchire né I radicali né I repubblicani di quell’apparato iconografico che nel frattempo caratterizzava altre opere mie della collana «Quaderni di storia», tipo Autunno del Risorgimento o Le due Rome.

Oggi che si scioglie il voto del libro organico si scioglie anche il voto dell’apparato organico d’immagini. Quattrocento illustrazioni raccolte con l’aiuto, come sempre volenteroso e competente, di Antonio Godoli, e con gli stessi strumenti della mia fondazione di storia contemporanea dedicata alla «Nuova Antologia».

Quattrocento tavole che tendono a comprendere anche i personaggi minori del repubblicanesimo e del radicalismo vincendo ogni tentazione titanica in una storia, la storia dei due partiti, che è fatta di vicende minute, di sofferenze, di contraddizioni, di resistenze anche catacombali. Che intrecciano momenti di legalità a momenti di illegalismo, che vedono atti di grande coraggio uniti ad una perseverante opera di penetrazione ideologica e di proselitismo politico.

Sono passati quasi quarant’anni da quando cominciai gli studi sui repubblicani e sui radicali. E ripenso a quanto questa storia sia stata poi parte dominante della mia stessa vicenda di uomo politico.

Riguardo a quelle lontane tessere del partito repubblicano che sono qui riunite nello speciale apparato iconografico come ai presagi di quel più vasto partito della democrazia che è stato il mio costante intendimento e il mio dominante sogno politico. Quasi a riunire l’eredità di Mazzini e di Cattaneo con quella di Giovanni Amendola e di Ugo La Malfa.

Giovanni Spadolini